Quando viaggio nei paesi dell’Est che hanno avuto una guida comunista, quello che cerco sono le tracce di un passato sotto la stella rossa.
Nella capitale della Romania leggere un ricordo del regime è alquanto difficile e richiede un’attenzione in più: ovunque si è cercato di cancellare ogni traccia, tant’è che il giro turistico per la città, rivisitando i luoghi del comunismo, dura poco più di due ore.

Appena atterrati all’aeroporto di Bucharest già si percepisce come il disegno originario di Cezar Lazarescu sia in netto contrasto con uno skyline oggi frastagliato e lontano dall’idea di sviluppo tecnologico che alimentava la propaganda del tempo e come anche l’urbanistica, man mano che si raggiunge il centro della città, cerchi di nascondere il vissuto.

I viali e il traffico tradiscono la volontà di uniformarsi ad uno standard più occidentale, ma la sopravvivenza architettonica ancora risente di un trascorso fatto di espropri e ricollocazioni, di quartieri clonati da loro stessi con edifici popolari che mantengono un ritmo, tanto regolare quanto monotono, di spazi chiusi e aperti.

Ma dove davvero Bucharest manifesta la sua fame di Occidente sono le strade del quartiere Lipscani. Nei locali del centro storico si beve e si balla fino al mattino, in queste strade popolate di bar, ristoranti e taverne è possibile saziare ogni genere di appetito.

Bucharest del II decennio del XXI secolo è una metropoli in forte contrasto, il luna-park della trasgressione e dei vizi, dove i giri sulle giostre sono quanto di più comunista sia rimasto in città.
È un centro che affanna a ricreare una propria identità, che arranca nell’economia e che guarda al turismo quale mezzo di sopravvivenza e di rinascita.
Peccato che in questa nuova corsa all’oro si stia perdendo un passato fatto di sfarzi che, seppur per motivi diversi, da Ceausescu alla crisi del 2008, rimane adombrato dietro i soliti, beceri, luoghi comuni.